In proporzione, le donne sono più istruite rispetto agli uomini, ma con l’aumento del numero dei figli aumenta anche il divario fra i tassi d’occupazione femminile e maschile [ISTAT, 2018]. Non è difficile indovinare il perché: se una donna decide di diventare mamma, subisce dei cambiamenti a livello fisico, emotivo e sociale e viene esclusa dal mondo di lavoro per diversi anni, o, addirittura, non vi rientra mai. Mezzo milione di lavoratrici ogni anno viene colpito dal mobbing per maternità [L’Espresso, 2015]. Inoltre, una mamma viene sempre criticata dalla società: se partorisce a vent’anni, per qualcuno è “troppo presto”, se a quaranta, alcuni dicono “troppo tardi”, vengono discussi i metodi di educazione del bimbo, la durata e il metodo di allattamento. Insomma, qualsiasi cosa può diventare motivo di rimprovero.
Serena Perrone, 31enne, ex studentessa di giurisprudenza di Uniud, ancora oggi non sa come riuscire a concludere il proprio percorso studentesco dopo la nascita di suo figlio, che ormai ha 6 anni. Il bambino è nato da una relazione per lei diventata “turbolenta e tossica” e lei si sente discriminata anche a livello sociale e giuridico.
Nel 2009, durante gli studi, a una festa studentesca incontra un ragazzo affascinante, che la colpisce come un fulmine. Il ragazzo le fa conoscere subito i suoi genitori e lei pensa che sia un segno di serietà e affidabilità. Passano ogni pranzo domenicale con loro e tutto sembra una favola, ma non dura a lungo.
Nel 2013 rimane inaspettatamente incinta e decide insieme al fidanzato di proseguire la gravidanza. Secondo il ragazzo non esiste altra soluzione che trasferirsi a vivere dai propri genitori. Serena partorisce nel 2014 e affronta fin dall’inizio gli strani comportamenti della suocera che, giusto per fare un esempio, risponde sempre all’esclamazione “mamma” del nipote, con la scusa di confondersi perché anche lei ha figli, anche se già adulti. Serena comincia presto a percepire la volontà della donna di escluderla dal ruolo di mamma e di sottoporla alle regole della loro famiglia, allo scopo di impedire ai due giovani di costruire un nuovo nucleo familiare.
“Secondo me erano anche ossessionati dall’opinione della società su di loro: volevano far vedere che anche la nuora faceva quello che dicevano loro”
Serena Perrone
Si verificano numerosi episodi spiacevoli: alcuni fanno sentire Serena a disagio per la mancanza di privacy, mentre altri la vedono vittima di violenza fisica. La ragazza decide di parlare con il compagno del loro rapporto. Vuole salvare la relazione a ogni costo, dato che da sempre desidera una famiglia felice. Crede che tutto si possa ancora recuperare e al tempo stesso prova, comunque, un grande senso di colpa. Nonostante tutti gli sforzi, il rapporto non funziona e nel 2016 finisce.
All’inizio i due decidono di accordarsi sull’affidamento del figlio senza coinvolgere il Tribunale. Il bimbo rimane con la mamma, che non impedisce al papà di vederlo. Un giorno, però, a Serena cade il mondo addosso: riceve una lettera con il ricorso del Tribunale. L’ex compagno si fa difendere da due avvocati e la accusa di essere una madre “delirante” e “quasi pericolosa per il bambino”.
All’improvviso Serena deve trovare le prove del fatto che è una buona madre, in modo tale da non farsi portare via il bambino, e prova il terrore più grande della sua vita. Nonostante tutte le accuse contro la giovane mamma, che lei trova ingiuste e pesanti, il giudice prende l’insolita decisione di affidarle il bambino per la maggior parte del tempo: infatti, secondo i dati, nell’85,51% dei casi i giudici dispongono l’affidamento congiunto [ISTAT, 2015].
Ma la battaglia non è ancora vinta: pochi mesi dopo la chiusura della prima causa arriva un’altra lettera di ricorso. Serena viene sottoposta a diversi test da criminologi e psichiatri per individuare eventuali disturbi o patologie. Tutti i test risultano nella norma.
“Continuo a sentirmi chiamata delirante in Tribunale dagli avvocati del mio ex, senza che il Giudice intervenga. […] Anche se non ci sono delle prove del fatto che io abbia dei disturbi psichiatrici, sono sottoposta a una valutazione psichiatrica. Ogni prova del contrario che porto al Tribunale viene scartata come invalida e inutilizzabile. […] Credo che il comportamento del mio ex compagno sia dovuto al desiderio di vendicarsi per il fatto che non voglio tornare con lui, e non perché abbia paura per nostro figlio, dato che la situazione danneggia soprattutto il piccolo.”
Serena Perrone
Marie-France Hirigoyen, nel suo libro Molestie morali: la violenza perversa nella famiglia e nel lavoro spiega che, oltre alla violenza diretta, esiste anche quella indiretta. Ne dà questa definizione: “È una violenza che, nella maggior parte dei casi, prende di mira il coniuge nel tentativo di distruggerlo e, in sua assenza, si trasferisce sui figli”.
La domanda che ci dobbiamo fare a questo punto è: come viene messa in pratica la presunzione d’innocenza nei confronti delle madri? Perché una madre, quando viene accusata dal suo (ex) partner di comportamenti scorretti verso i propri figli, deve provare la propria innocenza ancor prima che l’accusante abbia provato ciò che dice?
Sofia Rogozhnikova