Il 15 gennaio scorso, sul canale youtube “Play Uniud” il professor Luca Chittaro, direttore del laboratorio “Interazione Uomo Macchina”, ha tenuto una conferenza sul rapporto tra stereotipi, pregiudizi e spazi virtuali. Di seguito un breve riassunto dei temi che ha trattato nel suo discorso.
Nel 2010 un’importante rivista internazionale di psicologia “Journal of experimental psychology” pubblica un articolo intitolato “Virtual Prejudice” relativo a uno studio olandese nel quale due ricercatori si chiedevano se gli stereotipi del mondo fisico avrebbero contagiato anche il mondo virtuale.
La ricerca si basava sui risultati di un esperimento, nel quale i partecipanti olandesi, immersi in un ambiente virtuale, venivano messi a contatto con due figure differenti: un giovane con tratti somatici prettamente caucasici o olandesi e un altro giovane con lineamenti nordafricani. Il risultato, in linea con le aspettative, dimostrava che una maggioranza di partecipanti teneva una maggiore distanza e mostrava un aumento della conduttanza cutanea (sudorazione) nei confronti dell’avatar con tratti somatici nordafricani, viceversa i partecipanti stavano più vicini all’avatar con lineamenti caucasici e le loro reazioni fisiologiche dimostravano più tranquillità.
Nel 2015 l’Università di Udine, in collaborazione con l’Università di Padova, realizzò un esperimento in realtà virtuale, in cui i partecipanti si trovavano in una situazione di pericolo, costretti a fuggire da un grave incendio che aveva colpito la biblioteca del polo dei Rizzi. Lungo il percorso una persona intrappolata chiedeva aiuto e ai partecipanti veniva data la possibilità di salvarla. Il personaggio virtuale intrappolato poteva essere Mario, un uomo di carnagione chiara, interpretato da un doppiatore italiano, oppure Nkhangweleni, un uomo di carnagione scura, interpretato da un doppiatore ivoriano.
I risultati confermarono lo studio svolto quattro anni prima dai ricercatori olandesi.
Infatti, quando il personaggio presente nella scena era quello con carnagione scura e accento ivoriano, il 52% dei partecipanti prendeva la decisione di salvarlo.
Nel caso opposto invece, in cui era presente il personaggio di carnagione chiara e accento italiano, il risultato saliva all’83%.
Nello stesso periodo, in Inghilterra, la professoressa Antonella De Angeli si occupava invece di analizzare le frasi che gli utenti rivolgevano agli assistenti virtuali di programmi informatici o siti web.
Lo studio mostrava che l’assistente virtuale donna era più soggetta ad abuso verbale e riceveva più frasi a sfondo sessuale rispetto all’uomo. Questo risultato dovrebbe sorprendere anche solo per il fatto che è bastato dare a un programma sembianze femminili per modificare del tutto il comportamento nei suoi confronti.
L’importante ruolo di questi tre studi è quello di farci capire che non esistono differenze di comportamento tra mondo virtuale e mondo fisico, e che possiamo quindi utilizzare mezzi come la realtà virtuale per studiare e risolvere queste problematiche sociali senza danneggiare chi ne è vittima.
Un altro punto fondamentale, oltre all’assenza di differenze di comportamento tra reale e virtuale, è la libertà che questi mezzi ci danno, che spesso amplifica comportamenti razzisti o misogini, togliendo le barriere che potrebbero causare imbarazzo o sdegno.
Inoltre, essendo l’esposizione ripetuta una delle principali cause di stereotipi e pregiudizi, vivere esperienze virtuali che offrono la possibilità di attuare comportamenti scorretti o essere esposti a rappresentazioni corporee stereotipate non fanno altro che aumentare aspettative irrealistiche sul nostro fisico o quello di un/a futuro/a partner o sul loro/nostro comportamento. Questo è ampiamente confermato dalla teoria dell’oggettvazione sessuale: nata nel 1997 dagli studi delle due professoresse B. Fredrickson e T.A. Roberts sui comportamenti che portano una persona a considerare sè stesso/a o una categoria di soggetti come solo mezzo di soddisfacimento del piacere sessuale.
Nel corso della conferenza, il professor Luca Chittaro si è soffermato infatti su alcuni videogiochi del decennio scorso, e su Instagram, due mezzi di intrattenimento che sembrano fatti su misura per confermare le teorie di Fredrickson e Roberts.
Rispetto ai media tradizionali questi due mondi digitali hanno una forte componente interattiva, che amplifica lo sviluppo di comportamenti oggettificanti.
Questa libertà di azione però non comporta solo aspetti negativi: se usata in modo corretto l’esposizione a esperienze virtuali può aiutare persone che attuavano comportamenti sbagliati a cambiare atteggiamento riguardo determinate situazioni.
Per esempio attraverso la tecnica del perspective taking: un progetto di ricerca spagnolo utilizza la realtà virtuale per riabilitare uomini che sono stati condannati per violenza di genere. Mavi Sànchez-Vives, direttrice medica dell’azienda che ha sviluppato il progetto afferma:
“I nostri interventi potenziano gli elementi costitutivi dell’empatia, migliorando la capacità dell’autore della violenza di riconoscere le emozioni delle vittime”.
Indossando il visore l’uomo vive un’esperienza virtuale in cui si ritrova nel corpo di una donna che sta per subire una violenza. In base a come lui si comporta, l’atteggiamento del personaggio virtuale che interpreta l’uomo violento sarà più o meno aggressivo, mettendo il partecipante in una condizione di angoscia e pericolo, caratteristiche dell’abuso.
Un’altra ricerca internazionale nel 2017 ha scoperto tramite questo esperimento, un metodo per ridurre i pregiudizi tra persone di diverse etnie: dopo un breve periodo in cui veniva impersonato un personaggio virtuale di un’etnia differente, in molti partecipanti si è notata una diminuzione del loro pregiudizio implicito (comportamenti non verbali rispetto ad altre persone).
Per ulteriori approfondimenti, qui trovate l’intervento integrale del prof. Luca Chittaro.
Ruben Castellarin