La scelta universitaria passa attraverso numerosi filtri che variano per ciascuno di noi. Può un viaggio stimolare o confermare una decisione importante come quella del corso di laurea?
Oggi condivido con voi la mia esperienza personale: un periodo frenetico trascorso con la valigia in mano e lo zaino in spalla, che a me piace considerare, in maniera molto altisonante, una sorta di nostos, un viaggio di ritorno a casa, nel senso più ampio del termine, che mi ha portata qui a UniUd.
Era la fine dell’estate 2016, avevo appena preso il diploma da liceo artistico e mi accingevo a trasferirmi in un piccolo appartamento vicino alla sede universitaria…a Trieste. Scelsi la triennale in Fisica e trascorsi sei mesi e mezzo di studio matto e disperatissimo, accompagnata dal fischio gelido della Bora, il riscaldamento guasto e tre coinquilini che mi fornivano tutto il calore necessario per affrontare le giornate. La disfatta della sessione invernale era prevista, data la mia scarsa formazione in materia, tuttavia accettai con non poca amarezza e delusione che quello non fosse il percorso adatto a me. Mi era sempre piaciuto studiare, ma quel periodo mi fece odiare lo studio, e me ne addossavo tutta la colpa.
Nel marzo 2017 tornai a casa e dopo aver passato due settimane a piangermi addosso per la disperazione, cercando consolazione negli anime giapponesi e nel ramen istantaneo, compilai la rinuncia agli studi e decisi di trovarmi un lavoro. La consapevolezza di non essere più studentessa fu tanto difficile da accettare quanto il turbamento causato dalla necessità di ottenere un nuovo ruolo nella società.
Persi il conto delle agenzie che contattai, delle lettere motivazionali che scrissi e dei luoghi in cui lasciai il curriculum, al punto che, qualche settimana dopo, quando una delle agenzie mi contattò non avevo la più pallida idea di quale fosse tra le tante. Organizzammo un colloquio a distanza, su Skype (qualcuno lo utilizza ancora?) e la responsabile mi spiegò che stavano selezionando alcuni fotografi per diverse località balneari in Italia e che la selezione si sarebbe svolta per tre giorni a Lazise, sul lago di Garda, la settimana successiva. Accettai con un certo scetticismo e un velo di apatia, ripresi il mio trolley appena svuotato e partii. Non sono sicura di cosa scattò in me in quei tre giorni, forse il senso di competizione tra tanti fotografi, tra cui alcuni professionisti, ma, nonostante la tensione e la demotivazione che mi avevano accompagnato per mesi, trascorsi tre giorni divertendomi e con il desiderio di impegnarmi al massimo. Happy ending: mi assunsero e mi mandarono a Rodi, in Grecia, l’unico resort che avevano all’estero.
Vissi tre mesi e mezzo su quell’isola: le giornate erano calde ma ventilate e scorrevano con il sottofondo di centinaia di click. Chi di voi ha avuto esperienze di lavoro stagionale, legate alla fotografia o all’animazione in villaggio, sa che non c’è un limite all’orario di lavoro (e l’umile paga resta la stessa). Io dovevo fare circa mille foto al giorno agli ospiti del resort e dovevano essere perfette per essere acquistate subito, senza necessità di post-produzione (anche perché non c’era tempo per sistemarle).
Imparai meglio le lingue: l’inglese era diventata la lingua quotidiana e mentre i ragazzi dello staff locale cercavano di insegnarmi il greco, io li aiutavo con l’italiano. In breve tempo avevo imparato quattro parole e un paio di frasi basilari in tedesco, russo e ceco (o slovacco?), giusto il necessario per creare un primo contatto con gli ospiti stranieri, che quasi sempre si tramutava in una scenetta piuttosto comica all’insegna dell’ignoranza (#enjoy). Scoprii con notevole sorpresa che quel poco di francese studiato alle medie poteva tornare utile, in particolare quando gli ospiti venivano a scegliere le foto nominando il numero progressivo corrispondente: “numéro deux mille huit cent quatre-vingt-quatorze, s’il te plait.” – Dunque, duemila…ottocento…poi, quattro per venti fa ottanta, più quattordici…okay, duemilaottocentonovantaquattro! – Grandi soddisfazioni.
Ma veniamo al dunque: certamente il lavoro aveva i suoi pro e i suoi contro, come ogni cosa, ma il luogo era meraviglioso, l’atmosfera di internazionalità che si respirava mi faceva sentire a mio agio, come non mi ero mai sentita, avevo la possibilità di restare fino a ottobre per poi ripartire verso un’altra meta e iniziare così una carriera…cosa diavolo mi spinse a tornare all’università?
Ci fu un episodio in particolare, durante la stagione, che alimentò in me il bisogno di riprendere in mano i libri. Durante uno dei miei giorni liberi, mi recai al porto di Mandraki, a Rodi città, (io lavoravo a Kolymbia), e per un secondo vidi materializzarsi il grande Colosso del Sole rivolto verso l’orizzonte, con la fiaccola levata verso l’alto per segnalare il porto ai naviganti dell’Egeo. Provai nostalgia: non di casa, non degli amici, e allora capii cosa mi mancasse. A Trieste avevo lasciato l’arte per la scienza e fino a quel momento non mi ero mai resa conto che, sotto spoglie diverse, l’arte, la storia e la letteratura erano state da sempre il mio porto sicuro. Decisi di ascoltare quel richiamo, quel sussurro, e istintivamente di seguirlo. Non volevo avere rimpianti per non averci riprovato e pensai di avere tutta la vita per lavorare, mentre quello era il momento giusto per affrontare l’università.
Ripartii verso l’Italia la notte del 6 settembre 2017: vi risparmio i dettagli legati al dispiacere del distacco dal luogo e dalle persone, e ai disagi per prenotare un volo last minute. Era un mercoledì, ricordo che le lezioni in università sarebbero iniziate il lunedì successivo e io non avevo ben chiaro cosa dovessi fare. Scelsi Udine per la vicinanza da casa, e fortuna volle che l’offerta formativa proposta per Beni culturali fosse una delle migliori in Italia. Ricordo il giorno in cui portai l’iscrizione in segreteria al Toppo Wassermann e mi resi conto che si trattava dello stesso palazzo in cui avevo seguito, per dieci giorni, un percorso di orientamento durante l’ultimo anno di liceo, le cui lezioni erano incentrate su “Il viaggio di Enea tra letteratura e archeologia”. Ero tranquilla, non vedevo l’ora di iniziare e mi sentivo a casa.
Abigyle Alzetta