Pablo Picasso fu uno dei geni incontrastati dell’arte del ‘900. Si potrebbe senza dubbio affermare che le sue opere siano tra le più studiate e conosciute al mondo e così anche la sua lunga e sfaccettata vita. Quello che non si studia tra i banchi di scuola o che non si percepisce completamente dall’esposizione della sua arte è la sua personalità. Giustamente, direbbe qualcuno: è necessario scindere l’opera dall’artista, per quanto possibile e valutarle in base a parametri ben diversi.
Traendo spunto dalla recente lettura del libro Grand-père di Marina Picasso, mi sono ritrovata a mettere in atto l’operazione della scissione concettuale tra l’arte e la personalità di Pablo Picasso, riconsiderando tutto ciò che avevo sempre creduto di sapere dell’artista.
Marina Picasso è la nipote di Pablo, figlia di Émilienne Lotte e Paulo Picasso, a sua volta figlio dell’artista e della ballerina russa Ol’ga Kokhlova. Dopo svariati anni di psicoterapia in cui ha scandagliato il suo passato, ha deciso di pubblicare, nel 2001, un libro in cui racconta a cuore aperto l’infanzia vissuta con il fratello Pablo (detto Pablito) tra due genitori assenti, un nonno che definisce “anaffettivo” e una società che non comprendeva come i discendenti dell’artista potessero vivere nell’indigenza e costretti a “cavarsela da soli”.
Se da un lato, molto si sapeva delle donne di Picasso, le sue mogli, amanti e modelle, molto meno si conosceva delle sorti dei suoi figli e dei suoi nipoti, oscurati spesso dai pettegolezzi amorosi e dalle critiche entusiastiche delle sue opere. Marina invece, accompagna il lettore lungo un percorso fatto di mancanze e di battaglie per attirare l’attenzione del nonno, il grande artista che tutti idolatrano ma che non sembrava capace di amare.
Prendendo in esame una delle molteplici caratteristiche dell’attività Picasso, mi sono soffermata soprattutto sul significato che assumeva per lui quella ritrattistica, in particolare per quanto riguarda le raffigurazioni dei membri della famiglia. I racconti della nipote sono intrisi di rancore e gelosia verso coloro che momentaneamente si accaparravano il genio del nonno: i celeberrimi ritratti per cui utilizzava come modelli i figli Claude, Paloma e Maya o le sue compagne Marie-Thérèse Walter, Dora Maar e Jacqueline Roque o addirittura la sua capra Esméralda. Sono molti i dipinti e le sculture che li rappresentavano, laddove ai nipotini non era dedicato nemmeno uno schizzo da parte dell’artista.
Mentre il fratello Pablito non è riuscito a trarre forza dal rifiuto che sentiva provenire dalla famiglia e si è suicidato al momento della morte del nonno, sua sorella ha cercato di superare il suo dolore sia attraverso i suoi cinque figli che attraverso il perdono del nonno, che infatti, nelle ultime pagine del libro arriva a descrivere così:
“Murato nella sua opera, aveva perduto ogni contatto con la realtà e si era ritirato in un mondo interiore impenetrabile. La sua opera era il suo unico linguaggio, la sua unica visione del mondo. […] Lui che ha attraversato il suo secolo non viveva come i suoi contemporanei. Del resto, non li vedeva. […] Egli non riproduceva il mondo, imponeva il suo. Nessuno poteva comprendere l’isolamento nel quale combatteva questo matador. Nessuno aveva accesso alla sua corrida. Alla sua eterna crociata.
[…] La psicoterapia mi ha permesso, oggi, di scoprire un nonno che non conoscevo, nascosto in una gabbia dentro cui si rifugiava, troppo stanco e troppo debole per uscirne.” (tradotto da: Marina Picasso, Grand-père, ed. Gallimard, pp. 193-196).
Marina Zorz