OTAKU
Credevate che la categorizzazione dei nerd fosse complessa? Evidentemente ancora non immaginate quanto sia articolata quella degli otaku. Ma partiamo dall’inizio: il termine giapponese non possiede alcun alone di mistero sulla sua etimologia in quanto significa letteralmente “la sua casa”. Sarà una frecciatina sull’onda dello stereotipo di una persona che ama stare in casa come triste e sola? Plausibile, perché anche questa parola si è dotata di una componente negativa, ma l’aspetto esteriore non c’entra.
Nel 1989 Tsutomu Miyazaki stuprò e uccise quattro bambini, mangiandone poi alcune parti. In fondo si era già macchiato di pedofilia, perché non dedicarsi anche al cannibalismo? Una scena raccapricciante che rimase (e rimane) nei ricordi di molti. Vi chiederete perché la maniacalità di un serial killer screditò un’intera categoria di innocenti appassionati. La conclusione è molto semplice: l’assassino otaku, così venne denominato in un articolo, aveva una fervente passione per gli hentai (non serve che vi spieghi cosa siano, vero?). Le fotografie che “ornavano” molti quotidiani mostravano una stanza lurida e buia in cui erano ammassati centinaia di videocassette, tappezzata di poster. Queste circostanze macchiarono definitivamente quello che poteva essere solo un innocente hobby e da allora i nerd e i geek giapponesi sono visti, nel migliore dei casi, come disadattati.
È inutile ribadire quanto sia ingiusto che per gli errori di uno, paghino tutti. È una situazione che si ripete nella storia e che con ogni probabilità continuerà a manifestarsi. A questo proposito mi viene in mente uno sfortunatamente celebre articolo in cui Annalisa Colzi paragonò Dungeon & Dragons a una “porta aperta sull’occulto”, ma questo merita un approfondimento a parte (spoiler allert!).
Elencarvi tutte le accezioni del termine è pressocché impossibile, ne nascono sempre di nuove e vengono suddivise a seconda degli interessi, ma grazie a mamma Wikipedia posso presentarvene alcune: anime otaku (o aniota), cosplay otaku e manga otaku le trovo decisamente auto-esplicative; il gēmu otaku non è altro che il “maniaco” (che brutta parola per definirli) di videogiochi, il figure moe zoku è il collezionista di action e staction figure, mentre il pasokan otaku è lo “smanettone”, un Elle di Death Note. Immancabile è il wota, conosciuto anche come idol otaku che è solito usare particolari danze, chiamate wotagei, durante i concerti per sostenere l’idol che tanto ama.
Non so voi, ma credo di riconoscermi in almeno due categorie e sono abbasta sicura di non essere un’assassina.
WEEABOO
Ovviamente la categorizzazione non si conclude così facilmente: ecco a voi i weeaboo. Se non avete mai sentito questo termine non dovete assolutamente considerarvi ignoranti dato che è davvero poco comune in Italia, ma decisamente molto frequente tra gli americani.
Per farla semplice: un weeaboo è un otaku all’ennesima potenza, a cui non basta più essere un appassionato dimanga, di anime e quant’altro, tanto da comportarsi esattamente come un suo coetaneo giapponese. In genere conosce la lingua, ritiene che la cultura nipponica sia nettamente superiore a tutte le altre e non manca occasione per fartelo notare. Si scandalizza come una vecchia bigotta se osi guardare gli anime doppiati ed è inutile ribadire quanto siano mal visti dagli otaku. Non a caso esiste una variante di weeaboo chiamata Wapanese, un simpatico neologismo composto da Japanese e Wannabe, traducibile con “vorrei essere giapponese”.
HIKIKOMORI
Non vogliatemene se ora cambierò tono: gli hikikomori costituiscono un’importante problematica sociale e non trovo corretto fare la spiritosa. Questo termine significa letteralmente “stare in disparte” e si applica a persone che hanno scelto di scappare fisicamente dalla vita sociale, fino al completo confinamento in casa.
Il loro stile di vita è spesso caratterizzato da un ritmo circadiano sonno-veglia invertito, in cui le ore notturne vengono dedicate alla sostituzione dei rapporti sociali diretti con quelli mediati via internet e alla loro passione per i manga, gli animee i videogiochi.
Tutto questo può essere causato da svariati fattori sociali e personali, tra cui la scarsa integrazione in un ambiente fortemente omologante e un’evoluzione di disturbi già presenti che può portare a comportamenti ossessivo-compulsivi e depressione. Un altro fattore da non sottovalutare è la competitività, che nella società nipponica pervade anche il mondo della scuola, oltre che quello dello sport e del lavoro.
Akio Nakamori, il giornalista che scrisse l’articolo sull’“assassino otaku”, non poté distinguere una normale passione da un effettivo problema psicologico, riconosciuto solamente a partire dagli anni ’90, ma forse se quel titolo fosse stato “assassino hikikomori” le cose ora sarebbero diverse.
Trovo fondamentale riportarvi il pensiero della Dott.ssa Erica Cossettini, psicologa, psicoterapeuta e presidentessa dell’Associazione Amigdala:
Una riflessione sottesa, a quello che è stato scritto, è “perché abbiamo bisogno di etichettare le persone?”
C’è sempre di più la tendenza ad arricchire il vocabolario per definire le persone con etichette da cui è sempre più difficile prendere le distanze (ad esempio per una naturale evoluzione di vita). Questo si fa perché il nostro cervello fa un’economia di pensiero, utilizzando quello che sono le euristiche di giudizio o scorciatoie. Un esempio banale sarebbe “conosco un ragazzo che si mette lo smalto che è gay e con un’euristica affermo che tutti i ragazzi con lo smalto sono omosessuali”.
Rispetto alla situazione degli “hikikomori” corriamo proprio il rischio di metterli tutti nello stesso “contenitore” senza approfondire motivazioni e storia personale che ci potrebbe essere d’aiuto per trovare una soluzione. Il problema delle definizioni in categoria è che poi facciamo fatica a toglierle e anche un “hikikomori” fa fatica a venirne fuori se non gli diamo la possibilità di vedersi dentro il suo problema e le sue possibili soluzioni.