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GDR: Giovani Demoni Rinnegati o Gioia Di Ruolare?

Abbiamo chiarito perché gli otaku siano mal visti dal popolo nipponico, ma i nerd? Possibile che siano detestati solo per lo stereotipo sul loro aspetto fisico? In realtà sì, ma se poi ricordiamo attori come Vin Diesel, Henry Cavill, Zachary Levi e Mila Kunis, forse non è poi così vera la teoria nerd=brutto.

Tutto è legato a filo doppio con i giochi di ruolo (non quelli tra le lenzuola… o almeno non necessariamente). Comunemente conosciuti con l’acronimo GDR, si tratta di giochi basati sulla creazione condivisa di storie nelle quali i giocatori interpretano i protagonisti, a eccezione di uno che svolge il compito di narratore onnisciente. Il più famoso e longevo è sicuramente Dungeons & Dragons, che nasce nel 1974 dall’ingegno di Gary Gygax e Dave Arneson, ma ce ne sono molti altri come Gurps, Mondo di Tenebra, Cyber-Punk, Pathfinder, ecc.

Ma se non dall’aspetto fisico, allora da dove nasce l’inspiegabile odio verso i nerd? Proviamo a dare una risposta.

Due amiche, Debbie e Marcie, sono grandissime appassionate di giochi di ruolo, ma la morte del personaggio di quest’ultima la condurrà al suicidio, mentre Debbie sarà ammessa in un gruppo di streghe. Tuttavia lo shock per la morte della sua cara amica la riporterà alla realtà, lontano dal GDR e, grazie a un esorcismo, la giovane potrà liberarsi da questo mondo oscuro.

Pensate che sia uno scherzo o un’esagerazione? Vi sbagliate. È la trama di Dark Dungeon, un fumetto pubblicato nel 1984 da Jack Thomas Chick (il titolo è così palesemente riferito a D&D da essere banale). Tutte le strisce sono colme di fondamentalismo cristiano: dalla giovane creazionista che svela gli “errori” dell’evoluzionismo, all’omossessuale in preda ai sensi di colpa dopo aver ascoltato la storia di Sodoma. Il tutto condito da frasi come “noi prendiamo autorità dal nome di Gesù Cristo e attraverso il potere del Suo sangue versato, e releghiamo le forze demoniache in questo pattume di Satana!”.

Ovviamente non basta solo un fumetto per diffondere odio: serve la paura per ciò che non si riesce a spiegare o non si vuole ammettere, come una serie di suicidi tra giovani giocatori. I casi più celebri sono due: quello di James Dallas Egbert III, suicidatosi nel 1980, che ispirò un romanzo dal quale venne tratto Maze & Monsters, un film interpretato da Tom Hanks (potremmo aprire decine di parentesi sul cattivo gusto di questa mercificazione); e quello di Irving Pulling, toltosi la vita nel 1982. Quest’ultimo caso indusse Patricia, la madre del deceduto, a fondare la Bothered About Dungeons & Dragons (BADD), un’associazione i cui membri riconducono al gioco una lista infinita di pratiche criminali associabili all’esoterismo, alle stregue di una setta.

Questa polemica macchiò così tanto il nome del celebre gioco di ruolo da indurre la TSR, casa editrice di Dungeon & Dragons, a rimuovere ogni riferimento a demoni, diavoli e altre creature potenzialmente controverse. In quell’edizione i giocatori dovettero dire addio alle succubi, alle streghe, ai non-morti, ai cani infernali e a molto altro. Basandoci sui manuali dei mostri dell’edizione terza e mezza, contiamo circa una sessantina di pagine mancanti. Se l’associazione avesse criticato anche tutti i riferimenti mitologici estranei alla Bibbia, avremmo ottenuto un fascicoletto abitato soltanto da angeli e golem.

Fortunatamente queste modifiche vennero annullate negli anni successivi, ma non senza polemica; tant’è che questo contrasto a sfondo religioso nel 1996 giunse anche in Italia, quando la causa del suicidio di due ragazzi venne attribuita a questo gioco. Ci vollero ben tre anni per smentire questa falsa accusa.

Piuttosto conosciuto è l’articolo “Dungeon e Dragons non è un semplice gioco” di Annalisa Colzi. Tralasciando l’errore di mettere una e al posto di una &, perché a quanto pare il gioco non è degno nemmeno di avere il nome copiato correttamente, nel testo troviamo vere e proprie perle di saggezza come: “Vi sono poi numerose armi e oggetti che vengono in aiuto del personaggio, ad esempio nella sezione chincaglieria”. Vi giuro che ho setacciato ogni “Player’s Handbook” in mio possesso alla ricerca di tale termine, ma niente da fare: ho trovato solamente equipaggiamento di partenza e di avventura, armature e scudi, armi, strumenti, merci, cavalcature e veicoli. E poi l’illuminazione grazie a un’edizione inglese: possibile che abbia mal tradotto miscellaneous?

Secondo il vocabolario della lingua italiana chincaglieria è un “oggetto minuto, ninnolo appariscente ma di poco valore, usato per ornamento della persona o della casa”. Fidatevi: i personaggi che giocherete in D&D, per quanto eccentrici, non sono così ben disposti a portare tale paccottiglia in un’avventura, nemmeno con una borsa della capienza adatta. Miscellanueous è semplicemente un modo per raggruppare una serie di oggetti non riferibili ad altre categorie. Come se non bastasse, le cianfrusaglie da lei elencate – “la mano mummificata di un goblin, un pezzo di cristallo che si illumina alla luce della luna, un piccolo idolo raffigurante un’orrida creatura che induce incubi se gli si dorme accanto, una collana di corda da cui pendono quattro dita mummificate di elfo, una bambolina di stoffa conficcata di spilli, un’antica carta divinatoria, un pentacolo di bronzo con incisa la testa di un ratto al centro” – non rientrano nella categoria da lei, così creativamente, citata. Ammetto di non aver trovato nessuno di questi oggetti nei manuali, ma dalla descrizione risultano tutti magici o adatti a negromanti o warlock, non potrebbero mai rientrare in quella categoria.

Ma ora arriva la frase chiave dell’intero articolo: “I contenuti del gioco sono un invito alla magia, alla stregoneria, alla negromanzia, al reiki, all’occultismo, all’idolatria e questo è molto pericoloso”. È inutile commentare l’assurdità di tutto ciò, ma sappiate che conosco persone che ci giocano da 15/20 anni e hanno la fedina penale immacolata.

Ovviamente la signora Colzi deve dimostrare questa sua affermazione ed ecco a voi una prova inconfutabile che lei stessa ci ha fornito, attraverso la testimonianza di “un ragazzo che per tre anni ha giocato e ha rilasciato questa testimonianza: «Ho smesso di giocare a Dungeons e Dragons da circa 5 mesi perché durante una preghiera con un sacerdote in cui mi ha chiesto di ripetere le sue parole, alla frase “rinuncio a tutti i legami con magia e stregoneria” mi è venuto come un flash in testa il mio personaggio di questo gioco e ho preso questo segno come un campanello di allarme. Chiaramente ne ho parlato con il sacerdote e sono stato consigliato nell’abbandonare. Quando giocavo provavo un senso di onnipotenza. Con i poteri magici e robe di questo tipo puoi fare tutto quando ti pare, l’unica limitazione era la fantasia. Ogni volta che dovevo staccare dal gioco mi mancava da morire. Giocavo anche fino alle 3 di notte.»

Non badando alla scarsità della sua sintassi, ora possiamo certamente concordare che i nerd appassionati di GDR facciano parte di una setta satanica.

Scherzi a parte, l’ultima frase di questo fantomatico ex giocatore fa riflettere. Massimo Montani e Gilberto Gerra, del Centro Studi Farmacotossicodipendenze dell’Usl di Parma, in un dossier in cui per lo più descrivono i giochi di ruolo come una pratica pericolosa, misero in luce ciò che probabilmente è la causa dei suicidi citati finora: “fenomeni di alienazione e dipendenza fra i praticanti”. Come gli hikikomori in Giappone, esistono nerd che vivono in contesti socialmente difficili e con patologie psicologiche pregresse più o meno riconosciute, che vedono nel mondo alternativo di D&D (e non solo) una consolazione, tanto da immedesimarvisi completamente. L’insano gesto compiuto da alcuni non è da attribuire ai GDR in generale, ma al malessere che già vivevano e che non è stato curato.

Per spezzare una lancia a favore di Annalisa Colzi, bisogna dire che scrisse un secondo articolo nel quale ammise di aver trattato l’argomento con leggerezza e in maniera superficiale, ma, come disse un mio professore, “è più semplice verificare una notizia prima di scriverla, che smontare una falsità dopo averla pubblicata”.

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