Categorie
Libera-mente

Gocce salate

Settèmbre s. m. [lat. septĕmber -bris, agg. (sottint. mensis «mese»), der. di septem «sette»]. – Il nono mese dell’anno nel calendario giuliano e gregoriano, il settimo (donde il nome) nell’antico calendario romano.

Nel buio dietro i miei occhi, i bagliori violacei di un fulmine nel cielo nero. Entro: e l’acqua scioglie i grovigli dentro la pancia, la appiattisce. Nel liquido trasparente, striato d’oro, vedo il mio corpo di pesce, le macchioline sulla pelle che rabbrividisce.

Osservavo il liquido brillare di bollicine. Bevvi un sorso, godendomi i piccoli fuochi scoppiettanti in testa. La gente scorreva colorata attorno, le lucine del locale oscillavano nella brezza tiepida. Io una figura nera e sottile, sulla sedia, sola. Ad aspettarti.

Gioco col mare; sorrido alle onde impertinenti, mi bagnano scherzosamente le orecchie. Scelgo di assecondare il movimento dell’acqua, di nuotarci attraverso, farne parte. Oppure la sfido, con bracciate audaci; o mi lascio fluttuare.

Sfrecciavamo in bici, tra l’umido sentore di pino, la freschezza della spuma marina, spruzzi di gelsomino e odore di strada bagnata. La luce di un timido sole calava piano, illuminando la via di dolcezza, filtrata tra gli alberi. Il cielo: una pigra lotta tra l’azzurro e i nuvoloni di un temporale pomeridiano. Non sentirsi in dovere di essere o fare, semplicemente muovere le gambe, sfrecciare sulle ruote fianco a fianco, fondendosi con tutto, attorno.

Dicono che chi soffre di vertigini ha anche paura dell’acqua alta: teme l’altezza come le profondità. Abbiamo sempre quella spinta ad andare oltre. Ma forse il baratro è più profondo di quanto è alto il cielo.

Quella volta, sotto casa mia, la mia casa di mare. Nei primi istanti in cui le labbra si incontrarono prendemmo un respiro, all’unisono, per ricominciare a contare i respiri insieme, da quel momento. Mi abbracciasti non troppo stretta, ma a lungo, con convinzione, le braccia nude e forti e accoglienti, un leggero sentore di sudore.

Come una stella marina, galleggio, gli occhi socchiusi. Ogni tanto l’ombra sfuggente di un gabbiano passa nel cielo. I minuti si alternano come onde, che mi fanno rotolare piano da un lato, poi a faccia in giù. Mi immergo.

L’estate mi stava inghiottendo nella sua morbida bocca felina; si gustava le mie energie come pezzi di frutta colorata, digerendo ansie e paure. Vivevamo tra sabbia, aria, acqua, e il tuo couscous speziatissimo, la birra fresca al limone, il disco rovinato di Imany. Le dita della tua mano abbronzata che si infilavano con delicata scioltezza tra una pagina e l’altra di un libro, mentre afferravi la penna e il quadernino di carta marroncina. Circondato da carta frusciante, illuminato lievemente dalla luce del terrazzo.

Riemergo tra spruzzi e singhiozzi, mi sono scordata di respirare, o forse di non farlo. Sento freddo. Piccole onde mi accompagnano a riva: archi di spuma bianchi come sorrisi divertiti. Vento e sole mi avvolgono in una tiepida coperta. Ricordo come da bambine io e le mie sorelle, zuppe e tremanti come piccole naufraghe, dopo un lungo bagno venivamo avvolte a bozzolo dentro asciugamani colorati. Sedute sullo sdraio coi piedi a penzoloni, il fiatone che si calmava lasciando posto a un dolce torpore: il respiro pieno, libero.

Ti stagliavi chiaro, contro lo sfondo distratto di un mare pomeridiano che copiava le tinte del cielo sopra di lui. Mi raccontasti una leggenda: Mare e Cielo si contendono gelosi l’amore della Luna e del Vento. Così il mare cerca di imitare le candide nubi del Cielo, creando la spuma dalle sue onde, mentre il firmamento dipinge onde di nuvole sulla sua tela celeste. Provano a battersi in termini di profondità, uno verso l’alto, l’altro verso il basso. Sono indissolubilmente uniti: senza il loro legame il Mare sprofonderebbe nell’abisso, mentre il Cielo se ne volerebbe via. Tu Cielo piangi nel Mare le gocce che le sue onde ti spruzzano in su, salate, amare.

Cammino sulle orme di mille piedi, grandi e piccoli, umani e animali, costellati di conchiglie sminuzzate. Penso al silenzio che proverò altrove, ovunque, senza il rumore incessante del mare. E di te.

Eravamo sul pavimento morbido di tappeti del tuo salotto, l’aroma d’incenso sopra le nostre teste. Presi uno dei fogli sparsi e ci scrissi con il carboncino:
Parlami, ti prego.
Dimmi quello che vuoi, qualsiasi cosa.
La mia pancia è sabbia umida. Scrivici sopra, solcami di parole.
Scrivimi.
Voglio essere fatta delle tue parole, solo delle tue, risuonare nella tua voce.
Il timbro basso e graffiante che mi percuote.

Tu lo lessi, abbracciandomi da dietro. Me lo tolsi piano di mano, e scrissi disteso la tua risposta:
Se le lacrime
Fossero anime
Le vorrei del tuo colore
Stacco piano con gli occhi
Petali di pelle dorata

L’estate era il nostro cupido, ci aveva colpiti con le sue stupide frecce. E forse quello era un addio.

Una nuvoletta pigra galleggia in cima alle montagne sul mare, lontano. Un mare sottile, perlaceo, gentile. Eri un’isola felice, un piccolo scrigno di possibilità, e per questo insistevo e non mi davo pace nel lasciarti andare. E questi ricordi restano addosso come il sale. La colpa è di settembre: inclemente, meravigliosamente triste. Scotta di sole e taglia con la lama di un vento già troppo freddo. E colora i ricordi dei mesi estivi, anche i peggiori, di una luce dolciastra, la stessa dei suoi cieli caldi e rosati. Settembre accarezza lasciando graffi, nutre della nostalgia di esperienze mai vissute, concluse, inesorabilmente. Ti intrappola in un passato che non puoi più toccare. Appoggio la schiena nuda contro un lettino.

Navigo giornalmente fra diverse porzioni del reale, sovrapposte come onde di sabbia di colore indistinto. Navigo in un mare interiore senza una meta evidente. Cerco, sempre, ma cosa?

Corro come scivolando, il mio corpo è la bici verde arrugginita, leggerissima, attraverso l’aria come fosse acqua. Nel vento come in un fiume; soffia fresco, lo respiro. Colgo tutti quei particolari rosati: fiori di oleandro, un vestito da sera, un gommone a forma di fenicottero. Il cielo è enorme; il profilo della sabbia, della strada, dell’acqua lontana, bagnanti assonnati.
Corro, e sulla mia testa riccia le teste ricciute dei pini marittimi corrono.

A mia madre, e alla nostra Lignano

Ginevra Gagliardi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *