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Il Salotto Letterario

Il corpo dell’abito

Se qualcuno se lo fosse perso o scordato, lunedì 2 maggio a New York si è tenuto il Met Ball, che altro non è che il nome che il Metropolitan dà all’inaugurazione dell’annuale esposizione dedicata alla storia del costume. Il Met Ball è una straordinaria baracconata in puro stile hollywoodiano, spesso di dubbio gusto, il cui unico merito, perché anche il cattivo gusto ha un merito nel contemporaneo e in America in materia non sono secondi a nessuno, è di finanziare con i proventi ricavati dall’evento l’Anna Wintour Costume Center, una delle più importanti istituzioni museali nel campo della storia della moda. Ogni anno il curatore Andrew Bolton esplora un ambito della storia del costume, in forma generale con macrotemi o in forma monografica, dedicando una retrospettiva a uno stilista. Il tema dell’esposizione, che per il secondo anno mira a raccontare la moda americana, è un tutt’uno con l’inaugurazione, in particolare quest’anno agli ospiti sono state sussurrate all’orecchio queste tre parole: The Gilded Age.

Diciamo sussurrate e quindi poco ascoltate, perché tutto si è visto sulla passerella dell’inaugurazione, tranne che l’età dell’oro, Gilded Age appunto, della storia americana, che per definizione va dal 1870 al 1900, trent’anni in cui il continente si riempì di immigrati europei, poveri e spiantati. Alcuni di loro, però, come i Vanderbilt, i Morgan, i Rockfeller o i Guggenheim posero le basi delle loro fortune, rendendo di nuovo grande e ricca la nazione dopo i terribili anni della guerra civile. Probabilmente gli indaffarati stylist, messi da parte i buoni propositi storico culturali, hanno trovato altrove la loro bislacca ispirazione, mettendo in scena la peggior performance da red carpet degli ultimi anni.

In America: An Anthology of Fashion è il titolo dell’esposizione e quindi perché non saccheggiare la storia del mito americano, deve essersi chiesta la nota influencer Kim Kardashian (da qui in poi signora K) immancabile nelle sue apparizioni al Met Ball. La cosa deve esserle scappata di mano, a lei o all’ostinato entourage, che a quanto pare ignorano il morettiano dilemma «mi si nota di più se vado o se non vado alla festa», tanto da scomodare l’epitome del divismo targato USA: Marilyn Monroe. Perché non vestirsi da Marilyn con un abito originale di Marilyn, preso in un museo? Deve essersi chiesta la signora K. Sembra assurdo ma non c’è Codice dei Beni Culturali che tenga quando ci si imbatte nella signora K. Tanto ha fatto e probabilmente sborsato, che lunedì 2 maggio ha fatto il suo ingresso con un pezzo della storia del costume addosso. I difensori della prestazione della signora K, tappeto rosso e gradinata, pose per i fotografi incluse, diranno che si tratta di vintage e di un omaggio alla diva. In effetti il vintage sui red carpet di festival e premi si usa moltissimo, come Bella Hadid al Festival di Cannes, impeccabile in un Versace d’annata. Ma il vintage o te lo compri, oppure te lo presta la nota maison che, come la fata madrina di Cenerentola, lo fa solo per una sera. Non lo vai quindi certo a prendere dall’esposizione di un museo.

La signora K ha stupito tutti ancora una volta, facendo parlare di sé, l’unica capacità che le è nota, e come un’onda d’urto, vuoi anche per l’indignazione partita dai social, il mitologico ICOM (International Council of Museums) si è trovato a dover esprimere la sua sull’accaduto, sentenziando che: «i vestiti storici non dovrebbero mai essere indossati da nessuno. La prevenzione è meglio della cura, anche perché un trattamento sbagliato distruggerebbe l’oggetto per sempre». Purtroppo è successo esattamente ciò che tutti temevano: l’abito è stato danneggiato dal corpo della signora K, in particolare dal fattore K, ovvero la parte più iconica dell’influencer, che, per dovere di cronaca, non è il volto.

Il corpo dell’abito è stato ferito in modo irreparabile. Microabrasioni, strappi, strass mancanti e cuciture forzate. Nel saggio dedicato allo studio del costume teatrale intitolato Il quadrimensionale instabile[1], è enunciata la teoria per cui l’abito di scena abbia per natura quattro dimensioni. Le canoniche altezza, larghezza e profondità, cui va aggiunta la più importante, il personaggio, il corpo che l’abito va a impersonare in uno specifico ruolo. Questa è una proprietà inscindibile dalla natura materiale dell’abito, l’abito ha sempre un corpo di scena da mettere in scena. Ed era così quella sera del 19 maggio di sessant’anni fa, al Madison Square Garden di New York, quando si festeggiava con molti giorni di anticipo il quarantacinquesimo compleanno del presidente John Fitzgerald Kennedy. Questo è un racconto per immagini in un fumoso bianco e nero, con la voce di Peter Lawford che invita per ben due volte la diva a salire sul palco. Poi dal buio compare Marilyn, «Mr. President the late Marilyn Monroe», così la definisce l’attore, che con passetti da geisha dovuti all’abito color carne che l’era stato cucito addosso, entra in scena avvolta da una stola di pelliccia bianca, che fa ricadere a terra con seduttiva maestria prima di bacchettare con un dito il microfono per intonare il canto. L’occhio di bue la illumina completamente, facendo sparire il tessuto color carne e materializzando migliaia di strass che si illuminano ad ogni movimento, facendola sembrare una divinità nuda ricoperta di rugiada.

Ecco la memoria che porta con sé il corpo dell’abito, indossato da un’attrice di trentasei anni, icona già all’epoca e, da lì a pochi mesi, resa eterna dalla misteriosa morte. Una donna fragile messa a nudo davanti a migliaia di persone, mentre cantava i più confidenziali e intimi auguri di buon compleanno all’amante, intonando un vibrato seduttivo come solo lei sapeva fare. Questa era Marilyn Monroe nel suo indimenticabile abito di scena color carne ricoperto di lucenti strass nell’ultima apparizione pubblica prima della morte.

Si dice che la quarantaduenne signora K abbia dovuto perdere ben sette chili in pochissimi giorni per mettere i suoi 157 centimetri d’altezza, ma soprattutto il celebre fattore K che la contraddistingue, nell’abito di Marilyn Monroe, che di centimetri ne misurava 168 di centimetri. Quando i giornalisti chiedevano alla Monroe come facesse a indossare abiti così attillati, lei rispondeva: «Li ingoio». Davvero non ci sono più le dive di un tempo!



[1] Paola Bignami, Charlotte Ossicini, Il quadrimensionale instabile, manuale per lo studio del costume teatrale, Utet Università, Novara 2010.

Michele Vello

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