Il costume nell’arte, l’arte del costume. Con questa frase si potrebbe sintetizzare l’intento di questa rubrica, dedicata al sottile rapporto che lega la storia dell’arte, o meglio la raffigurazione del soggetto in determinate vesti, con la storia della moda, ossia del costume. Infatti, moda e costume possono essere visti come sinonimi e sono parole comunemente associate e usate in modo disinvolto, indipendentemente dal loro reale significato. La più attendibile definizione dei due termini va cercata nel loro rapporto con il tempo. Essenzialmente la moda è il tempo presente mentre il costume è il tempo passato. Ovvero tutto ciò che ora è di moda, quindi la tendenza del momento, il vezzo della stagione e dell’attimo, è destinata a diventare fuori moda e a entrare nel grande libro della storia del costume.
L’ampia gonna a ruota degli anni Cinquanta, gli aderenti pantaloni a zampa degli anni Settanta, i colori fluo delle felpe degli anni Ottanta fino ai bermuda invernali da donna di dieci anni fa, sono oramai storia del costume e le caviglie nude dell’uomo d’oggi o il pelo hipster lo diverranno tra qualche tempo. Ma questo ciclo non si esaurisce mai, perché un giorno tutti questi “costumi” torneranno freschissima “moda” sovrascrivendo un testo di immagini e sensazioni destinate a essere reinterpretate in un nuovo presente.
Da questo assunto potremmo affermare con tranquillità che ogni artista si sia confrontato con la moda del suo tempo, “imprigionandola” nei ritratti di papi e re, borghesi e nobili, santi e miti, fissando così il gusto di ogni epoca. Un caleidoscopio di immagini a partire dal quale si può studiare e raccontare la storia del costume e scoprire un linguaggio segreto, fatto di colori, fogge e dettagli oggi invisibili agli occhi dell’uomo contemporaneo, ma chiari a quelli dell’uomo di un tempo. Ed è spesso di fronte a queste palesi evidenze della storia del costume che anche il più scettico storico dell’arte scende a patti e si lascia istruire mettendo da parte il pregiudizio su tutto ciò che è moda, che viene immancabilmente bollato come qualcosa di frivolo, superfluo e commerciale, probabilmente dimenticando l’aforisma di Jeff Koons che ci ammoniva con queste parole: «L’arte non consiste nel dipingere un quadro, ma nel venderlo».
Ma l’arte, si sa, ha molti meno pregiudizi del genere umano e a volte stupisce, per esempio rivelando come molti artisti avessero rapporti stretti con sarti, tessitori e non solo. Ad esempio pittori come Paolo Veronese, la cui committenza laica era spesso formata da commercianti e produttori di preziosi tessuti, i quali gli mettevano a disposizione il meglio del loro campionario perché fosse ritratto, visto e perché no, invidiato. Lui stesso, seppur figlio di uno spezapreda (scalpellino), aveva un fratello ricamator nella natia Verona; oppure si pensi allo scultore trentino Alessandro Vittoria e ai bolognesi fratelli Carracci, tutti figli di sarti. Talvolta, senza alcun pregiudizio professionale, molti di loro si sono cimentati nel disegno delle vesti per la corte di re e signori, come Leonardo o Pisanello, e si consideri per contro il magnifico inganno che vuole l’uniforme delle guardie svizzere disegnata da un ombroso Michelangelo con estro di couturier.
E che dire di Cesare Vecellio, parente del più celebre Tiziano, anch’egli pittore che a fine Cinquecento pubblicò a Venezia quello che è considerato il primo manuale di storia del costume al mondo, intitolato De gli habiti antichi et moderni di diverse parti del mondo, dove con dovizia di dettagli descrive le vesti degli antichi, dei contemporanei di tutti i regni e regioni d’Europa fino a giungere ai margini di quei nuovi mondi appena esplorati da meno di un secolo.
Ma la testimonianza più emblematica in questo racconto fatto di visioni pittoriche di stoffe preziose e fogge mirabolanti, l’ha data il bergamasco Giovanni Battista Moroni con il ritratto del sarto. Moroni è un prodigio nella raffigurazione delle vesti di metà Cinquecento, una delizia per gli occhi di ogni storico e studioso della storia del costume. Ma se nel contemporaneo Veronese il tratto è liquido tanto che le vesti sembrano muoversi come leggere sete al vento, l’oro e l’argento dell’ordito dei tessuti risplendono nelle pieghe accarezzate dalla luce, in Moroni lo sguardo è calligrafico e puntuale quasi come una foto di moda di Richard Avedon per Vogue negli anni Cinquanta. Moroni nei suoi ritratti mette in scena la nobiltà lombarda, ebbra dell’ostentazione di elaborate vesti, splendidi tessuti e calde pellicce, per giungere alla rappresentazione – doverosa, verrebbe da dire – dell’autore di siffatta bellezza: il sarto.
Marco Boschini fissa per primo, in un passo de La Carta del Navegar Pitoresco edita a Venezia nel 1660, l’immagine del nostro protagonista: «Gh’è dei retrati: ma in particolar / Quel d’un Sartor, sì belo e sì ben fato, / Che ‘l parla più de qual se sia Avocato; / L’ha in man la forfe, e vu el vedé a tagiar». Infatti, lo stupore sta tutto nel vedere ritratta una professione in modo così esplicito, senza alcuna sottotraccia allegorica. Il gesto è palese e talmente forte che ci fa entrare in relazione con l’uomo ritratto, dinanzi al quale magicamente siamo tutti clienti entrati nella sua bottega per ordinare o acquistare un abito. Lui ci attende cortese e ci guarda da dietro il suo tavolo da lavoro, anzi si è fermato appena un attimo perché stava per tagliare con possenti cesoie un panno che reca, appena segnato dal gesso, un modello. Sembra chiedere a noi che ci facciamo lì, nella sua quotidianità, un attimo prima di dire con garbo: «In cosa posso esserle utile?».
L’anonimo artigiano è proprio colui che ha commissionato l’opera, per la quale non si è messo di certo in posa in modo aulico o affettato. L’unico vezzo sta nelle vesti: lo stretto giubbone color panna leggermente gonfio sull’addome come voleva la moda dell’epoca, nobilitato dalla decorazione del taglio a vivo denominata stratagliato e le voluminose braghesse alla sivigliana di color rosso mattone, dalle cui tiracche sbuca una fodera dorata. Tre punti di bianco della camicia di lino fittamente arricciata sui polsi e sul collo. Una cintura in cuoio marrone chiaro fermata da fibbie in metallo. La vanità di un anello d’oro al mignolo della mano destra. Fin qui tutto ci parla di Cinquecento, ma il volto e l’acconciatura sembrano tradire la sua epoca, perché con gli occhi di noi contemporanei (ed è questo il bello dell’ineffabile parola che chiamiamo moda) il sarto potrebbe essere benissimo uno di noi. Il ragazzo della porta accanto, il cameriere di un bar, il postino e, perché no, il nostro fidanzato. In fin dei conti aveva davvero ragione quella gran donna di Coco Chanel, quando diceva: «Nella moda non c’è nulla di nuovo, se non quello che abbiamo dimenticato».
Michele Vello