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The Program: lo sconvolgente racconto di una tragedia ignorata

Qualche giorno fa, facendo scrolling su Netflix, mi sono imbattuta in una docuserie, di tre episodi, intitolata The program: rompere il silenzio diretto da Katherine Kubler.
È un documentario che parla di resilienza e di coraggio. Porta alla luce uno tra argomenti più oscuri degli Stati Uniti attraverso interviste agli ex studenti della Academy at Ivy Ridge, testimonianze toccanti e immagini di repertorio. La stessa Katherine è una ex studentessa.

Ma che cos’è l’Ivy Ridge?
Era un’accademia, che di accademia aveva ben poco. Il suo programma, come in altre strutture simili, era quello di rieducare gli adolescenti problematici e pericolosi. Accanto alle materie curricolari, agli studenti venivano insegnati anche valori come l’integrità, l’onore, la responsabilità e il rispetto.
Dal materiale promozionale la struttura era presentata attraverso foto di ragazzi sorridenti, che all’aperto fanno sport e amicizia.
I genitori di questi ragazzi pagavano migliaia di euro al mese pensando di aiutarli. Ma la realtà è ben lontana dalle loro speranze, poiché l’obbiettivo finale di questo programma era solo quello di far gonfiare il conto di quei pochi che gestivano la struttura, a scapito di traumi psicologici provocati ai giovani.
Il trasferimento di questi ragazzi non era affatto facile: il tutto avveniva con un rapimento. Venivano praticamente circondati da degli uomini con delle manette, anche nel cuore della notte, e portati via.
L’edificio si trovava in una posizione isolata, circondato da ettari di terra selvaggia. All’interno della struttura, subivano perquisizioni completamente nudi prima di essere condotti nelle proprie stanze.
Tutte le comunicazioni con il mondo esterno venivano interrotte, ma avevano la possibilità di scrivere una lettera alla settimana alla propria famiglia. Le regole erano estremamente limitanti: non parlare, non guardare dalla finestra, non guardare gli altri studenti negli occhi, non toccare nessuno, niente trucco, non potevano fare amicizia, avevano un tipo di taglio di capelli obbligatorio, non avevano il permesso di guardarsi allo specchio e non potevano scorreggiare senza un permesso. Se fossero stati scoperti a
trasgredire una di queste regole, gli sarebbero stati tolti dei punti. Questo programma era basato su un sistema di livelli a punteggio, partendo dal primo, per arrivare fino al sesto. Era volutamente stato creato per non farli arrivare mai alla fine.

«Al livello 1 non sei niente, quindi se ricevi una punizione non hai abbastanza punti per evitarla. Ti mandano a scrivere temi o a ricopiare le regole per ore.
Al livello 2 ricevi una barretta due volte alla settimana.
Il livello 3 è importante perché puoi fare una telefonata di quindici minuti ai tuoi genitori una volta al mese.
Il personale ti ascolta. Se parli male del programma, la chiamata viene interrotta e perdi questo privilegio.
Dal 4 al 6 si accede ai livelli superiori. È come essere in un altro programma. Puoi parlare, raderti portare i capelli sciolti, truccarti.»

Molti di questi giovani ragazzi sono stati all’interno di queste strutture per oltre tre anni della loro vita.
In molti hanno subito violenza fisica e psicologica, e molte ragazze hanno subito abusi sessuali dai componenti del personale. Questi sono traumi che purtroppo in molti non riusciranno ad affrontare attraverso un percorso di psicoterapia, poiché gli stessi psicoterapeuti della Ivy Ridge erano violenti e abusanti. Quindi è comprensibile la sfiducia verso questa figura professionale.
Fortunatamente questa struttura fu chiusa nel 2009, dopo varie denunce, ma altre strutture simili sono ancora operative.

In conclusione, trovo che il modo in cui è stato girato il documentario, con le scene, le lettere di aiuto e gli incontri con i vari testimoni che hanno subito o perpetrato queste ingiustizie, offra uno sguardo sconvolgente e informativo su una realtà poco conosciuta.
Ne consiglio vivamente la visione a tutti coloro che desiderano approfondire questo argomento e comprendere meglio le sfide affrontate dai giovani coinvolti.

Klea Sheshi

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