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Il Salotto Letterario

Raffaello e la nascita della moda italiana

Può stupire anche il più intransigente degli storici dell’arte, ma dietro la nascita della moda italiana si cela il divin pittore Raffaello Sanzio da Urbino. Si tranquillizzino i puristi di questa o dell’altra fazione, nessuna ispirazione diretta, fatta di drappeggi o soluzioni estetiche rubate da qualche tela dipinta tra Quattro e Cinquecento, in quello scorcio d’Italia che teneva a battesimo il Rinascimento: il suo fu solo un muto patronato che settantuno anni fa tenne a battesimo uno dei brand – come usa dire – più importanti della nazione.

Sembra quasi scritto nelle stelle, che i più celebri inizi della moda del Novecento debbano cadere a febbraio. Era un mercoledì 12 febbraio quando, nel 1947, il quarantaduenne Christian Dior presentava la sua prima collezione di Haute Couture al 30 di Avenue Montaigne a Parigi, con l’esuberante “linea a corolla” che scatenò l’entusiasmo di tutta la stampa accorsa a vedere il défilé e in particolare colpì l’attenzione della temibile giornalista dell’Harper’s Bazaar Carmel Snow, che esclamò: «It’s such a new look!». In quel momento era (ri)nata la moda francese perché in un sol colpo Dior aveva cancellato cinque anni di occupazione tedesca, e lo aveva fatto restaurando il lusso e donando la voglia di sognare attraverso metri e metri di seta drappeggiata su vitini di vespa, che non si vedevano per le strade della Ville Lumière da almeno trent’anni.

Parigi e la Francia tutta si beavano della ritrovata egemonia sulla creatività e sullo stile, l’onore era salvo e la moda di Christian Dior con le sue cospicue esportazioni divenne ben presto parte sostanziosa del bilancio della nazione, avviata verso un roseo dopoguerra. Sembra una favola, vero? Ma come in ogni favola c’è una sorella minore dietro l’angolo, che non sta certo a guardare, ma che ha bisogno dell’aiuto di una fata madrina per sbocciare.

E a chi se non all’Italia toccava questo ruolo? A onor del vero, la moda italiana si era ritagliata un saldo credito estetico durante il ventennio fascista, creando uno stile ben preciso che, anche se a volte pesantemente condizionato dai diktat di regime, era pur sempre valido e di pregio, tanto che negli ultimi anni è diventato oggetto di un accurato studio per gli storici del costume. Ma l’Italia del ’47 non era la Francia del ’47. L’Italia era un paese in ginocchio, distrutto dai bombardamenti e dal futuro incerto quanto l’identità che doveva e voleva assumere dopo il referendum del 1946. Pensare alla moda non era certo la priorità. Ma per qualcuno lo era eccome! E quel qualcuno era Giovanni Battista Giorgini, la nostra fata madrina appunto, che si esercitava da anni nell’incantesimo di far nascere una moda italiana dallo stile autonomo e non più una declinazione riveduta e corretta dello stile parigino, come lo era sempre stata da quando a metà Ottocento Charles Frederick Worth inventò il concetto di alta moda.

La strada scelta da Giorgini era decisamente in salita, perché si doveva scontrare con l’atavico timore di e se sfidare o meno la moda francese sul terreno della creatività. La moda italiana si basava infatti sulla più completa sudditanza verso quella francese. A Parigi si andava per ispirarsi, per acquistare i capi o i patrons de couture (i cartamodelli) e perché no, per copiare, per poi rivendere ispirazioni, abiti e copie ai clienti italiani che esigevano lo stile francese come l’unico possibile e accreditato. Dove stava l’orgoglio (creativo) nazionale e perché mai bisognava essere ancora importatori di idee, quando anche qui esistevano validi creativi e manifatture d’eccellenza?

Era tempo che la moda, pardon, lo stile italiano, facesse il suo debutto nella storia del costume e quel gran giorno, guarda caso e scherzo del destino, sarebbe stato il 12 febbraio 1951. Tutto era pronto per quel piccolo e timido tentativo, talmente timido che nemmeno la stampa locale e nazionale ne dava nota, appunto perché se fosse stato un insuccesso sarebbe stato ben presto dimenticato. Giorgini aveva dato il meglio di sé, mettendo a frutto decenni di buone relazioni con i compratori e giornalisti americani, convincendoli a prolungare la loro permanenza in Europa facendo una deviazione a sud per arrivare a Firenze, dopo le tanto declamate sfilate delle maison parigine. Sul fronte della creatività, Giorgini aveva messo assieme le più celebri firme della moda italiana dell’epoca, convincendole con non poche titubanze, a sfilare assieme in una due giorni a casa sua, Villa Torrigiani, al 144 di Via Serragli a Firenze.

La strategia verso il successo impose anche dei benevoli inganni, perché la fazione dei giornalisti fosse sufficientemente curiosa e predisposta ad accogliere la fazione dei creatori di moda, i quali in quell’evento nato da una stretta di mano vedevano il miraggio di un nuovo mercato. Sembra doveroso lasciar ora parlare il giornalista Guido Vergani, che meglio di altri ha saputo raccontare quel giorno a Firenze.

«Ogni firma, ogni casa, ogni personaggio aveva una sua storia, una sua piccola gloria alle spalle e un po’ se la giocava, un po’ la rischiava in quella sfida. In quella biblioteca di casa Giorgini, fra gli sgabuzzini tirati su alla meglio per le nove sartorie, caratteri, vite, storie, esperienze, nascite diversissime fra loro coabitavano nell’ansia di quella sfida: l’aristocratica fierezza di Simonetta e di Giovanna Caracciolo insieme al piglio, all’intelligenza contadina di Giovanna, Zoe e Micol Fontana, alla vena popolaresca di Germana Marucelli e al piglio borghese di Jole Veneziani; l’ironia, il distacco di Fabiani mischiati agli ori, al parrucchino e al fondotinta di Schubert. L’ansia era al pari alla posta in gioco, altissima, e all’angosciante certezza di ritrovarsi contro, per il solo fatto di aver osato, il Moloch parigino».

«Matilde Giorgini racconta: regnava un silenzio assoluto e indecifrabile. Era serietà, impegnata attenzione o imbarazzo? Non una parola, non un applauso, non un cenno di approvazione o di noia. Niente trapelava dai gesti, dai volti dei pochi, impassibili ospiti. Mio padre stava in piedi, accanto alla porta della biblioteca-spogliatoio. La mamma occupava un’altra postazione strategica. Erano disorientati. Non riuscivano a capire come stesse andando. All’ultimo modello, venne l’applauso. [] Giorgini si avvicinò ai buyer: «Funziona? Qual è la vostra impressione?». Stella Hanania, la compratrice di I. Magnin disse: «Parigi non ci ha emozionato così». «Valeva il viaggio». Stilisti, sarte, premiere, piscinine[1], stiratrici, vestiariste si affacciarono al salone, raggianti. Era nata la moda italiana.»[2]

Ma in questa epifania del Made in Italy dove stava Raffaello Sanzio? Sull’invito della sfilata, un elegante cartoncino color pergamena, campeggiava la bella Dama con liocorno della Galleria Borghese di Roma. È il presunto ritratto di Maddalena Strozzi, rampolla di una delle famiglie più prestigiose della città di Firenze, scelta qui come ambasciatrice dello stile italiano nel mondo. E con lei Raffaello e il Rinascimento e tutta la gloriosa tradizione artistica e artigianale italiana incarnata in quella docile creatura fantastica che la bella Maddalena tiene in grembo. È curioso pensare che, fino al restauro del 1935, quest’opera, allora di attribuzione incerta, fosse pesantemente compromessa da una ridipintura con le fattezze di santa Caterina d’Alessandria. Solo un attento studio, la scoperta di disegni preparatori e un’indagine con i raggi X svelarono al mondo cosa si celava sotto. È bello quindi pensare che la storia della Dama con liocorno sia la perfetta metafora di quella della moda italiana: una favola iniziata a Firenze nel febbraio del 1951 come un meraviglioso capolavoro svelato per sempre al mondo.


[1]
Termine del dialetto milanese che indicava le sartine in apprendistato a differenza della première, ovvero la prima sarta dell’atelier.

[2] Dizionario della moda, a c. di G. Vergani, Milano, Baldini & Castoldi, 1999, pp. 332-333.

Michele Vello

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