Perché il nostro cervello è attratto dai dettagli crudi e perché l’informazione non dovrebbe trasformarsi in intrattenimento.
Quando si parla di pornografia del dolore si intende l’utilizzo, in ambito giornalistico e sui social media, di immagini forti e dettagli macabri capaci di attirare l’attenzione del lettore. Negli anni si è spesso acceso il dibattito sulla legittimità di presentare contenuti a forte impatto emotivo senza filtri: quanto è davvero necessario non edulcorare la realtà? E quanto invece questi dettagli vengono riportati per indurre una reazione più che per senso di verità, magari per ottenere visibilità?
Come in ogni dibattito che tocca la sfera della moralità, è difficile prendere una posizione netta. Ma capire dove affondano le radici dell’interesse umano per quello che viene definito “il fascino del male” può essere un punto di partenza utile per porre dei limiti.
Diversi studi in ambito psicologico confermano che il nostro cervello è programmato per ricordare e fissare meglio gli stimoli negativi rispetto a quelli positivi o neutri: questo comportamento prende il nome di negativity bias. Una tendenza che ha origini evolutive: in passato, chi prestava più attenzione ai pericoli intorno a sé aveva maggiori probabilità di sopravvivere. Questo meccanismo, quindi, è diventato una forma di difesa ancestrale, con cui il cervello cerca di proteggerci. Di fronte a un’immagine disturbante o a un titolo cruento, la nostra mente si attiva più rapidamente, percependolo come un allarme da non ignorare.
Al negativity bias si aggiunge un altro fattore: il sensation seeking, ovvero la ricerca di esperienze intense, nuove o emotivamente forti, influenzata da sistemi neurotrasmettitoriali come quello dopaminergico e serotoninergico. Questo spiega perché alcune persone, anche inconsapevolmente, siano attratte dal brivido del macabro e dalla narrazione estrema del dolore. Non si tratta solo di morbosità o consumo passivo della sofferenza altrui, ma anche di una curiosità empatica: il bisogno, anche se distorto o superficiale, di comprendere la desolazione e il tormento dell’altro.
Il problema della narrazione mediatica degli eventi più cruenti nasce nel momento in cui la sofferenza diventa intrattenimento, quando la cronaca si trasforma in uno spettacolo a puntate e il dolore delle vittime viene consumato con la stessa leggerezza con cui si scrolla il feed di Instagram. Il rischio è che l’informazione si riduca a semplice voyeurismo — termine che, in ambito giornalistico e sociologico, indica metaforicamente l’osservazione della vita (o del dolore) altrui in modo distaccato e morboso, per il solo gusto di guardare — sostituendosi all’empatia. E che la denuncia dei fatti diventi solo un pretesto per far leva sull’istinto più ossessivo.
Comprendere questi meccanismi non significa giustificare l’eccesso di dettagli crudi o l’estetizzazione delle tragedie. Può però aiutarci a capire perché certi contenuti abbiano tanto successo. Sta a noi come lettori pretendere un’informazione che non rinunci né alla verità, né alla dignità di chi quella sofferenza la sta vivendo in prima persona.
Sofia Bergamini