Tatto /tàt·to/ s.m. [dal lat. tactus -us] – 1. b. L’azione del toccare in quanto è fonte di particolari sensazioni, soprattutto nella locuz. avv. al tatto: riconoscere al t.; morbido, duro, liscio, ruvido al tatto.
Uno dei miei più cari amici, un fratello, che rivedo dopo mesi di silenzio, mesi che hanno cambiato entrambi. Lui non ci pensa un istante, non ne ha bisogno, è come prendere una boccata d’aria: mi vede e mi abbraccia. Mi cinge tra le sue braccia, come se volesse accogliermi nel suo nido, prendermi al volo mentre cado. Mi lancia addosso un secchio d’affetto e, per la prima volta, questo gesto mi sorprende. È come se avesse fatto una cosa inaspettata, come se non fosse il momento giusto. Eppure non è così, e non lo è mai stato prima. Un tempo anelavo gli abbracci, ogni momento era buono per darne o riceverne. Ora, per la prima volta, sento di non riuscire a gestirli, come se fosse qualcosa di complicato, al pari di un’acrobazia mai eseguita prima. Cosa mi è successo? Tornerò come prima?
Questo mi ha fatto riflettere sugli abbracci e sul contatto, sul tocco fisico ed emotivo. Ci vuole tatto per parlare di certi argomenti, tanto più se il centro del discorso diventa il tatto stesso, concreto e metaforico. Scrivere di certe cose è come toccare dei tasti interiori: nascosti e, a volte, dolenti. Ma è necessario farlo. E condividere diventa il modo migliore per guarire dai propri piccoli grandi mali, e magari aiutare anche gli altri a fare lo stesso. Sento di parlarne proprio ora, perché in questo periodo dell’anno tutto sembra toccarmi di più, sia fuori che dentro: il vento gelido che sferza il viso, i piedi gelati, il calore di una bevanda bollente che scivola lungo la gola, la morbidezza di un maglione o di una coperta. La compagnia di qualcuno. E la sua assenza.
Il contatto è spesso dato per scontato. Toccare qualcuno non significa per forza toccarlo davvero: dipende dalla situazione, dalla persona che si ha davanti. La maggior parte di noi possiede una barriera tra sé e il mondo, una piccola corazza protettiva. Al momento di un tocco, di un abbraccio, viene messa alla prova. Come reagirò? Mi darà fastidio? Affetto? Calore? Mi spaventerà? O, peggio, non proverò nulla? Le cose che mi terrorizzano maggiormente e in egual misura sono proprio queste: sentire troppo o non sentire affatto. E anche il non sentire nulla sarebbe accettabile, per me, se non comportasse anche il non riuscire a farsi sentire: non riuscire a trasmettere emozioni, che per me è come restare incompresi, voler parlare ma rimanere senza voce.
Farsi sentire è qualcosa che non si limita a un linguaggio fatto di suoni. È costituito da sguardi, gesti, sensazioni. Far scaturire emozioni negli altri, nel corso della mia vita, questo mi interessa davvero. Fare capire agli altri quanto ciò che sto facendo è importante per me. E, soprattutto, riuscire a dimostrare alle persone a cui tengo che per me sono importanti, indispensabili, che mi rendono felice, che per loro ci sono e ci sarò. Lasciare una piccola impronta nel loro cuore per non venire dimenticata: altra immensa paura comune agli esseri umani. Ma con tutta questa necessità, con questa smania di trasmettere emozioni, si finisce talvolta per soffocarle, e nasce il desiderio di sparire senza lasciare traccia. Amare troppo, dare troppo, comporta il rischio di soffrire parecchio, e questo ci spaventa, tanto da bloccare le emozioni pur di sfuggirle.
Anche venire fraintesi fa paura. Il timore che gli altri pensino che tu non ci tenga abbastanza. Le persone creano, più o meno involontariamente, un’armatura per sopravvivere a tutte queste paure e difficoltà. Ma questo le porta a un punto tale da non riuscire più a godersi un abbraccio.
Personalmente ho sempre amato gli abbracci, penso siano modi sinceri di trasmettere qualcosa: di dire «ti do», ma anche «dammi, ho bisogno». C’è chi dice che sono vitali per una vita sana, e, vivendo da sola, mi rendo conto di quanto sia vero. Mi ricordo la forza di certi abbracci e la delicatezza di altri. Ho sempre ritenuto un’immensa vittoria riuscire dopo tanto tempo a dare un abbraccio a una determinata persona, lasciare finalmente e per sempre un pezzo di me in lei.
Forse è proprio questo mio interesse per la capacità di trasmettere qualcosa agli altri, dovuto alla mia difficoltà nel riuscire ad esprimermi, ad avermi avvicinata al mondo del teatro. Un mondo al quale sono appartenuta per un po’ di tempo, e dal quale non sento di essere davvero uscita. Teatro e contatto sono come sinonimi. La forma di un gesto può parlare più della voce di un personaggio. Molto spesso, parole e linguaggio corporeo non coincidono. Anche per questo recitare non significa necessariamente fingere: è forse il momento in cui siamo più sinceri, in cui parliamo apertamente, e mettiamo a nudo i nostri sentimenti.
Mi sorprende sempre questo continuo rimescolarsi dei ruoli di contatto fisico e di contatto emotivo: di come qualcosa che ti tocca fisicamente non è detto che lo faccia anche emotivamente, e viceversa. Tutto ciò che tocchi può lasciare qualcosa di suo in te, diventando molto di più. Fino a trasformarsi in un’idea, un ricordo, qualcosa di tangibile ma indefinibile. Paradossalmente, parlando del tatto, tra i nostri sensi il più concreto, mi vengono in mente le cose più effimere e intangibili, la cui esistenza è comunque innegabile.
Nel frattempo ho rivisto quella persona, e poi ne ho riviste altre. E ho capito una cosa: per fortuna, siamo tanto bravi a disimparare, quanto a ricordarci nuovamente, come si dà un (vero) abbraccio.
Ginevra Gagliardi