Categorie
Il Salotto Letterario

Andar per mostre: un giro a Forlì per L’arte della moda

Mai come ora la Romagna è al centro dell’attenzione nazionale, e non per la festaiola riviera, il trittico piadina-squacquerone-Sangiovese o l’ennesimo omaggio a Federico Fellini ma, purtroppo, per il mal tempo. L’alluvione che ha devastato queste terre a maggio non ha però domato gli abitanti, che chiedono di non esser dimenticati e faticosamente si stanno riprendendo, per non perdere la stagione estiva e ricominciare a vivere.

In questo contesto alquanto desolante, brilla un atipico angelo del fango: l’esposizione dedicata allo stretto rapporto tra arte e moda, allestita presso il complesso museale di San Domenico a Forlì.

Due parole per giustificare lo sconfinamento di uno storico dell’arte nella storia della moda. In primo luogo infatti la moda è un sistema costituito da forme, e lo storico dell’arte è il tecnico maggiormente preparato ad analizzare un sistema così configurato. In secondo luogo le fonti storiche per analizzare l’evoluzione del sistema sono costituite primariamente da documenti figurativi (dipinti, sculture, miniature, incisioni, ecc.), la cui validità è ancora lo storico dell’arte il più competente a valutare.

Queste affermazioni di Maria Teresa Binaghi Olivari datate 1977 sono in parte vere e in parte no, perché delle altrettanto valide competenze in confezione, aiutano a svelare, vedere e capire un abito dipinto, davvero a 360 gradi. Ma potremmo tranquillamente affermare che su queste parole è stata messa in scena L’arte della moda, l’età dei sogni e delle rivoluzioni 1789-1968, l’esposizione forlivese che Stuzine ha visitato per voi. Ammettiamo che sulla carta il progetto si presentava più che mai curioso e poteva suscitare molte perplessità. Non tanto per l’abbinamento arte e moda, ma per l’enorme arco di tempo, ben 179 anni, preso in esame. Anche il meno avvezzo conoscitore della storia ravvisa come questo secolo e mezzo e oltre sia davvero ampio e difficile da dominare per la varietà e mutevolezza di fatti, segni e concetti.

Ma l’arte e la moda, e questa mostra lo dimostra, sanno colmare con la piacevolezza dei loro segni questi gap mentali, armonizzandosi in un racconto organico che cattura magistralmente il visitatore. Ed ecco apparire nella navata seicentesca della sconsacrata chiesa di San Giacomo Apostolo, una piccola corte del Settecento fatta di dame in robe à la française e cicisbei in marsina, in un trionfo di sete e ricami, cui fanno eco, negli altari pagani delle cappelle laterali, i ritratti della buona società firmati da Pompeo Batoni, Fra Galgario, Élisabeth Vigée Le Brun e la rivale Adélaïde Labille-Guiard. Nell’abside, il primo dei tanti cortocircuiti temporali che contraddistinguono questa esposizione, in cui il passato dialoga con il presente, un fastoso e ingombrante abito d’alta moda di John Galliano per Dior del 1998, con il suo stile “Maria Antonietta”, domina l’intero spazio. Come la storia insegna, arrivano la Rivoluzione e poi l’Impero di Napoleone, qui immortalato come re d’Italia, e accanto a lui i ritratti della nuova nobiltà in stile, le cui vesti subito si materializzano nelle vetrine a lato in tutto il loro splendore di mussole impalpabili, impreziosite da leggeri ricami e scialli di cachemire dai disegni indiani. Da segnalare la curiosità espositiva di un abito non finito, di cui sopravvivono le parti da cucire, qui montate su un manichino per la gioia di tutte le sarte in visita all’esposizione. Anche lo stile Impero si conclude con il dialogo passato-presente, qui impersonato dalle reinterpretazioni di Gianfranco Ferrè e nuovamente, Galliano per Dior.

I tempi sono maturi per abbandonare il Congresso di Vienna e dare avvio all’Ottocento. Anzi sarebbe meglio dire gli Ottocento, tante sono le complessità e i mutamenti di questo secolo in cui ogni decennio rappresenta un mondo a sé stante. E qui lo si vede bene nel percorso espositivo scandito da singole sale, in cui ognuna interpreta appunto una decade del secolo della Rivoluzione industriale. Gli abiti, talmente perfetti e ben conservati che sembrano confezionati ieri, si mettono in dialogo con tutta una serie di dipinti, ritratti e scene di gruppo, che indagano i vezzi di quel mondo borghese, e bisogna sottolinearlo, davvero iper accessoriato, della buona società immortalata da Silvestro Lega e compagni.

Le ampie e ingombranti gonne sorrette dalle crinoline di metà secolo diventano sul finire drappeggi raccolti sul retro, ora tenuti su dalle tornure. Questa mutevolezza del vestire ci accoglie nell’antico refettorio del convento domenicano, ornato ancora da lacerti di affreschi medioevali che fanno da tappezzeria agli abiti di fine secolo, molti dei quali appartenenti al costumista Massimo Cantini Parrini. Ed ecco comparire le prime griffe della moda, tra tutte Worth, il celebre sarto che inventò l’haute couture cui fa da contraltare il pittore James Tissot, che immortalò nelle sue opere tutto lo stile della Parigi del tardo Ottocento.

Il Novecento è introdotto dalle vesti e il ritratto della divina Eleonora Duse, un abito della donna più bella del mondo Lina Cavalieri e uno della Stella d’Italia Franca Florio, tutte influencer ante litteram sorvegliate, si fa per dire, dal satiro ferrarese Boldini, qui presente con un ritratto della marchesa Casati, ultima di questo indimenticabile quartetto di icone. La mutevolezza di inizio secolo è rappresentata dai fermenti artistici della Secessione Viennese, la Wiener Werkstätte e il Futurismo, tutti movimenti che hanno saputo esprimersi al pari sia in arte che in moda, ancora d’ispirazione al contemporaneo, vedi gli abiti di Valentino suggeriti dalle tendenze viennesi. Da qui si va agli anni Venti e Trenta, tra gli abiti innovativi e minimali di Chanel e l’estro di Elsa Schiaparelli e di tutte le declinazioni italiche e non solo. Il flusso della storia del Novecento corre e così anche quello dell’arte e di riflesso quello della moda. Il concetto spaziale di Lucio Fontana da un lato e le geometrie di Roberto Capucci, la modernità di Pierre Cardin e il gusto pittorico di Germana Marucelli dall’altro, fanno esclamare più di una volta: «Questo lo potrei benissimo indossare anche oggi». Magari anche l’abito ricamatissimo di perline della regina di quadri Palma Bucarelli, storica dell’arte e ambasciatrice della moda Made in Italy.

La mostra, decisamente lunga, si conclude e va ben oltre il 1968 del sottotitolo, in un continuo rimando tra arte e moda, che culmina con tre sfavillanti e coloratissime Marilyn di Andy Warhol e un paio di iconici jeans Levis dipinti da Damien Hirst, in cui l’indumento in tela si fa tela d’artista. La conclusione dell’esposizione è affidata all’icona dei musei di San Domenico, la coppiera degli dei Ebe, divinità della giovinezza eternata tra marmo e accessori d’ottone da Antonio Canova. Ebe ci viene incontro con un passo di danza, le vesti – poche – sapientemente modulate dal vento, braccia alzate pronte a offrirci il nettare, quasi un parallelo con l’innata ospitalità di queste terre romagnole. Ma Ebe non è sola, con lei c’è la dea sensuale e pagana di Gianni Versace, vestita in un abito drappeggiato con l’iconica maglia metallica, eternata dalla storia del costume e ora da Marco Mengoni nella canzone Due vite. Magari questo potrebbe essere un suggerimento per la prossima mostra: moda e musica. Perché no?

 

L’esposizione L’arte della moda, l’età dei sogni e delle rivoluzioni 1789-1968, resterà aperta fino a domenica 2 luglio 2023. Altre informazioni su: https://mostremuseisandomenico.it/arte-della-moda/#

Michele Vello

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *