Categorie
Ventunesimo Secolo

Carcere: inferno o purgatorio?

«Lo sai quanta gente si ammazza nelle carceri italiane?»
Uno alla settimana, mi informò prima che facessi qualche ipotesi.
«Lo sai come si uccidono?»
Il senatore Manconi disse che molto spesso si impiccavano. La seconda causa di morte era il gas. Usavano le bombolette, come aveva fatto Marco. C’era un modo per evitare quest’ultimo tipo di morte, per arginare almeno in parte quell’orrore, un modo talmente semplice che non si capiva perché non si riuscisse ad adottarlo. «Basterebbe sostituire le bombolette a gas con delle piastre elettriche». Erano anni, disse Manconi, che inoltravano richieste al ministero della Giustizia.

La città dei vivi, Nicola Lagioia, Einaudi, 2020

 

Questa frase, tratta da un libro che analizza il famoso caso di cronaca dell’omicidio di Luca Varani commesso da Manuel Foffo e Marco Prato, mi è rimasta particolarmente impressa. Mi sono chiesta quanto effettivamente io ne sappia del carcere, dello stile di vita, del sistema di giustizia del mio Paese. Mi sono tornati in mente i numerosi casi di suicidio che avvengono fra quelle mura, uno dei più recenti è quello di Jordan Jeffrey Baby, famoso trapper deceduto l’11 marzo di quest’anno.

Ho dunque deciso di prendere in mano il computer e fare qualche ricerca, di capire cosa si nasconde davvero dietro al sistema delle carceri italiane. Ho così scoperto che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato un decreto che prevede l’assegnazione di cinque milioni di euro all’Amministrazione penitenziaria “per il potenziamento dei servizi trattamentali e psicologici negli istituti, attraverso il coinvolgimento di esperti specializzati e di professionisti esterni all’amministrazione”.

Nel romanzo viene detto che almeno una persona alla settimana si toglie la vita e, infatti, solo dall’inizio del 2024 il conteggio è salito a ventinove detenuti. Delinquenti, giusto? Mostri che si trovano lì per un motivo, o almeno questo è quello che si legge sui social, scritto dai cosiddetti ‘leoni da tastiera’.

Cosa dovremmo aspettarci da una prigione? Il famoso Inferno di Dante Alighieri, in cui si sconta la propria pena e si è destinati a soffrire per sempre e non poter mai andare avanti, o il Purgatorio, una montagna in salita, la possibilità di espiare le proprie colpe per guadagnare l’accesso in Paradiso? Le carceri italiane devono essere una mera forma di punizione o anche la possibilità di un percorso per essere reintegrati in società?

Certo, non tutto è bianco e nero. C’è la possibilità che un percorso psicologico, a qualcuno, non serva proprio a nulla. E sì, alcune persone non meritano di uscire dal carcere, ci sono dentro per un motivo. Tuttavia, c’è chi in carcere passa solo qualche mese o anno e, quando esce, risulta peggio di prima. Lo dicono i dati, lo dicono le descrizioni della vita nelle carceri che spingono l’essere umano al limite della sua sopportazione.

Il CPT (Comitato Europeo per la Prevenzione della Tortura e dei Trattamenti e delle Punizioni Inumane o Degradanti) ha pubblicato nel gennaio del 2020 un report in seguito a una visita alle carceri di Biella, Milano Opera, Saluzzo e Viterbo avvenute nel marzo del 2019. Lo scopo era quello di verificare le condizioni dei detenuti e le dichiarazioni risultano sconcertanti.

È risaputo ormai che il principale problema nelle carceri italiane è il sovraffollamento, con, nel 2019, circa dieci mila detenuti in più rispetto alla capienza disponibile. Questo comporta spazi minuscoli in cui vivere (lo spazio vitale è stato dichiarato essere tra i 3 e i 4 m2, che, sebbene sia rispettoso del limite individuato dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU di 3 m2, è stato ritenuto insufficiente dal CPT, che raccomanda di garantire a ciascun detenuto almeno 4 m2 in celle multiple) e anche una maggiore probabilità di episodi violenti tra detenuto o tra detenuti e personale. Infatti, molti dei detenuti hanno denunciato, durante queste indagini, violenza gratuita, sia fisica che verbale, da parte di chi dovrebbe “prendersi cura” di loro. Episodi che, molto spesso, vengono celati in svariati modi: resoconti vaghi, testimonianze non verificabili del personale, documenti medici brevi e coincisi.

Le strutture stesse, in realtà, sono degradate. Usura di pareti e docce, umidità, freddo, pochi ripari, sale comuni spoglie e sporche, nonché scarsa qualità del cibo e disinteresse per le esigenze religiose dei detenuti.

Potremmo continuare per ore e analizzare il report del CPT, ma ho deciso di riportare solamente quei piccoli bisogni, che tanto piccoli non sono, dei quali noi stessi necessitiamo ogni giorno, le basi di quella che è la vita umana. Un piatto caldo, spazio vitale, il diritto a non subire violenze.

Se queste sono le condizioni delle carceri italiane, se questo è il modo in cui viene trattato un detenuto che potrebbe essere rilasciato fra un anno o qualche mese, ci meravigliamo se la nostra società sta diventando sempre più impregnata di violenza, molto spesso invisibile? Il compiere un crimine toglie il diritto di essere trattato come un essere umano? Dà a noi, invece, il diritto di decidere della vita altrui, della loro morale, della loro integrità fisica e mentale?

Certo, cinque milioni di euro sono stati stanziati, ma quei soldi faranno davvero la differenza o deve cambiare qualcos’altro? Se nella maggior parte dei casi è disponibile una ridotta presenza di specialisti (che accedono dall’esterno), le carceri non dispongono di servizi interni, strutturati e organizzati. Il carcere non è il luogo per essere curati, ma ci entrano persone che hanno bisogno di supporto psicologico, che necessitano di essere reinserite correttamente nella società.

In conclusione, vi consiglio la lettura del libro citato a inizio articolo, La città dei vivi: Marco Prato, uno dei due ragazzi coinvolti nell’omicidio, si suicida proprio in carcere. La sua storia, così come quella di Jeffrey Baby, è solo una delle tante. È solo l’ennesimo tassello di un puzzle che non si incastra, perché si tratta di qualcosa di molto più profondo di un problema che può essere risolto con dei soldi. Qualcosa va cambiato, ed è qualcosa che ha le radici nella nostra società.  

Martina Dugaro

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *