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Il film “Ritrovarsi a Tokyo”: l’affidamento genitoriale in Giappone.

Ritrovarsi a Tokyo (Une part manquante) è un film del 2024 diretto dal regista belga Guillaume Senez, noto per altre opere cinematografiche come Le nostre battaglie e Keeper. Racconta la storia di Jay, un tassista francese che vive a Tokyo e cerca disperatamente di rincontrare sua figlia Lily, dalla quale è stato separato a causa delle leggi giapponesi sull’affidamento.

La lentezza del film non è solo una scelta stilistica, ma anche un modo per farci entrare nella quotidianità sospesa di Jay — una vita fatta di piccoli gesti, silenzi e attese. Parla la lingua locale fluentemente, guida un taxi tra le strade notturne di Tokyo, si muove con discrezione tra clienti, bar e locali — al punto che, in una scena significativa, un tassista giapponese gli chiede perfino indicazioni stradali. Quel gesto, semplice ma potente, suggerisce quanto Jay si sia integrato nel tessuto urbano e culturale della città; eppure, dietro questa esistenza tranquilla e quasi invisibile, si nasconde un dolore profondissimo: Jay è un padre che non ha il diritto di vedere sua figlia, dalla quale è stato separato per nove anni.
Questa verità non viene rivelata subito, ma si svela poco alla volta, aumentandone l’impatto emotivo. Jay non si presenta mai come vittima, ma ogni suo gesto trasmette amore trattenuto e una silenziosa resistenza. La sua vicenda rappresenta quella di molti altri genitori nella stessa situazione: i cosiddetti left-behind parents, ovvero coloro che, dopo una separazione, vengono completamente esclusi dalla vita dei figli. In Giappone, la custodia esclusiva è la regola. La custodia condivisa non è prevista e il genitore non affidatario – spesso il padre – rischia di essere cancellato dalla vita del figlio. I diritti di visita non sono garantiti da leggi vincolanti, ma lasciati alla discrezione del genitore affidatario. Così Jay si trova in un paradosso crudele: può essere accettato come lavoratore, come cittadino, come parte della metropoli — ma non come padre. La società giapponese riconosce il suo ruolo pubblico, ma gli nega quello più intimo e profondo. Anche se conosce Tokyo meglio di chi ci è nato, resta straniero là dove desidera appartenere di più: nel cuore di sua figlia.

A rendere la narrazione ancora più sentita vi è la figura di Michiko, l’avvocata che lo assiste. Il suo coinvolgimento va oltre la professione: anche lei, da bambina, ha subito le conseguenze di un sistema che esclude. Cresciuta senza padre, ha creduto per anni al racconto della madre che lo dipingeva come un uomo fuggito al suo ruolo. Solo da adulta ha scoperto che la verità fosse diversa, che quella distanza non era stata una sua scelta. Michiko non ha mai potuto conoscere davvero il padre, né farsi una sua opinione. La rabbia che prova per la condizione di Jay è figlia di un’assenza imposta e di una verità mutilata. La sua esperienza entra in risonanza con quella del protagonista e con quella di tanti figli che crescono con una versione parziale dei fatti. È proprio il loro scambio a rendere il film ancora più potente, mostrando come le ferite della separazione non si fermino ai genitori, ma si trasmettano anche alle generazioni successive.

Questo è un sistema che per anni ha distinto il Giappone dagli altri Paesi del G7, ma qualcosa sembra in procinto di cambiare: all’inizio del 2024, la camera bassa del Parlamento ha approvato una legge che introduce la possibilità della custodia congiunta, con entrata in vigore prevista per il 2026. Un miglioramento ancora lontano, che però potrebbe finalmente aprire uno spiraglio per migliaia di genitori esclusi e per i figli coinvolti.

Verso il finale del film, emerge un dettaglio particolarmente toccante: Lily, la figlia di Jay, ricorda perfettamente quanto i suoi genitori litigassero e quanto fosse difficile il clima familiare. È consapevole che non stavano bene insieme. Eppure, nonostante tutto, sceglie di passare quel giorno con suo padre. Lo fa anche se la madre, dopo aver scoperto che lui continuava a portarla a scuola di nascosto, le aveva proibito di incontrarlo. Questo gesto, semplice eppure così carico di significato, dimostra quanto i bambini, pur immersi in dinamiche complesse, siano capaci di ricordare, comprendere e decidere con lucidità sorprendente.
Comprendo perfettamente che in una separazione possano emergere conflitti, rancori e divergenze profonde tra i genitori. Ma proprio per questo credo che a decidere non debba essere uno solo dei due, bensì un giudice competente, capace di ascoltare entrambe le parti e, soprattutto, di tenere conto del benessere e della volontà del bambino. È lui il soggetto sul quale ricade ogni decisione familiare, ed è suo il diritto di mantenere, se lo desidera, un rapporto equilibrato con entrambi i genitori.

A confermare la realtà narrata nel film, vorrei riportare l’attenzione su una testimonianza concreta: la storia di Pierluigi (nome di fantasia), cittadino italiano residente a Tokyo, raccontata in un’intervista del 2017 pubblicata da Orizzontinternazionali, riflette pienamente le difficoltà affrontate da molti genitori nelle stesse condizioni. Dopo che la madre ha portato via i figli, trasferendoli a Nagasaki, Pierluigi ha intrapreso una lunga battaglia legale per poterli rivedere. Nonostante il Giappone abbia ratificato la Convenzione dell’Aja sulla sottrazione internazionale di minori nel 2014, casi come il suo vengono spesso trattati come faccende private, piuttosto che come gravi violazioni dei diritti del genitore escluso.
Le vie legali, in queste situazionii, si rivelano spesso lunghe, costose e poco efficaci. Eppure, per molti, rappresentano l’unico spiraglio per non arrendersi alla perdita del rapporto con i propri figli. In questo scenario, il genitore non affidatario si ritrova a combattere contro un sistema che sembra ignorare la centralità del legame affettivo, trattando il bambino non come un soggetto titolare di diritti, ma come un bene da assegnare. In Giappone, infatti, l’opinione del figlio nei procedimenti di custodia è raramente presa in considerazione, a differenza di quanto accade in molti altri Paesi dove la volontà del minore ha un peso decisivo.

La forza di Ritrovarsi a Tokyo sta nel mostrare questa ingiustizia senza mai alzare la voce: lascia parlare i silenzi, gli sguardi mancati, le distanze che diventano abissi. Non è un film che cerca colpevoli facili, ma racconta una realtà complessa, in cui a soffrire non sono solo i padri – come Jay – ma anche tante madri, sia giapponesi che straniere, coinvolte in dinamiche che spesso sfuggono al controllo, intrappolate in un sistema legale che non tutela davvero il legame genitore-figlio.
Quello che il film ci ricorda con delicatezza – ma anche con fermezza – è che nessun genitore dovrebbe essere tagliato fuori dalla vita del proprio figlio per legge, e nessun bambino dovrebbe crescere con una verità monca, basata su una sola versione dei fatti. Le relazioni familiari vanno protette, ascoltate, difese: non negate.

Sheshi Klea

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